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3 Giugno 2016 3 Giugno 2020

Pietro dei colori

Pietro dei colori

di Normanna Albertini

“Devi far paura, se vuoi salvarti!”: ecco l’embrione del riappropriarsi delle donne della loro storia, del loro posto nel mondo.

Pubblicato da Tra le righe libri
Edizione 2 aprile 2016

Di cosa si tratta

1440 e 1453: due date, alpha ed omega dell’ordito narrativo intessuto da Normanna in questa sua terza fatica; terzo tassello di un cimento più grande, più appassionato: la ricostruzione di una mitologia al femminile; tentativo di riappropriazione di un simbolismo scippato a noi donne da secoli di patriarcati variamente coercitivi, variamente rimoventi ciò che prima fu. Simbolismo che avrebbe potuto diventare storia, e protagonismo ed affermazione di soggettività, privata e pubblica, ben prima dello spartiacque dei secoli XIX e XX. Due date, si diceva, che paiono scelte a caso ma non di caso si tratta, semmai di Anànche: il Destino intessuto dalle leggendarie Parche, redivive nelle filatrici di Borsigliana. Vediamo perché: nel 1440 Lorenzo Valla pone la pietra d’angolo dell’Umanesimo: il saggio De falso credita et ementita donatione Constantini, tramite il quale l’autore dimostra la falsità di un documento su cui la Chiesa aveva basato per tutto il Medioevo la legittimazione formale del suo potere temporale. Nel 1453 muore invece l’ultimo impero “romano” e l’era attorno ad esso ruotante: il ventre molle di Bisanzio è conquistato dalla fame ottomana, praticamente fino ai “giorni nostri” (fine della Grande Guerra). Sempre nel 1453, viene consumato un atto che contribuisce a dare il via alla formazione delle monarchie nazionali: l’incipit della guerra delle Due Rose. Finisce dunque il Medioevo, in questi quasi tre lustri. Ed inizia l’era delle guerre “moderne”, degl’imperialismi, degli scismi, dei fondamentalismi, religiosi od affaristici che siano. Un’era ben lungi dall’esser terminata. Ammonisce la scrittrice, ammonisce la donna: questo è, però e sempre, il tempo della storia degli e per gli uomini; non il tempo misurato dal dio-luna Thoth; egizio Dio/Dea, arcano depositario/a di una conoscenza scientifica avanzata e misteriosa: una tradizione segreta a cui avevano dato avvio, in un remotissimo evo, certuni “immigrati” portatori di una sofisticata civiltà. I sopravvissuti ad una leggendaria inondazione: il Diluvio Universale. Thoth-Luna; ma anche Thoth-guardiano della luna: colui che doveva assicurarsi che la divinità lunare seguisse la sua rotta tra i cieli notturni, come forza regolatrice e responsabile di tutti i calcoli celesti. Thoth-Luna, ma anche Thoth-Osiride, guardiano degl’inferi, l’Altra faccia della luna, sempre Lei. Osiride ucciso, smembrato, ridotto in 14 pezzi. Osiride ricomposto e resuscitato dalla sua consorte Iside, divinità femminile depositaria appunto dell’arte di ricomporre e (ri)donare la vita. Idem peraltro farà con Horus, figlio suo e di Osiride. Una tradizione sapienziale a tutto tondo, che dall’antico Egitto approda nel paradigma giudaico-cristiano con Mosè, con Cristo stesso. E la Maddalena, approdata dopo la morte del Maestro in terra di Provenza, giù fino ai Pirenei, catena-confine franco-spagnolo. Ed è proprio qui che ha sede la misteriosa e misterica chiesetta a lei dedicata, in un villaggio dall’arcano fascino e significazione: Rennes le Château. Le tracce di un’antica confraternita esoterica di “individui selezionati” da Thoth-il Demiurgo per custodire la Sapienza le ritroviamo anche nelle sette presocratiche e nella mitologia greca meno banalizzata, dove Thoth diviene l’Hermes Trismegisto, il Tre Volte Grande. Questa sorta di filo rosso che lega i Templari, l’Arca dell’Alleanza, i Catari, la massoneria, Isaac Newton, Leonardo da Vinci, il curato Bérenger Saunière, il pittore Nicolas Poussin, sfida i secoli e sembra essere il medesimo corpus dottrinario che, come l’Araba Fenice, s’affaccia tra le righe del romanzo di Normanna: il Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto Parte dunque da Oriente, la misconosciuta contribuzione delle donne alla Sapienza. Già in Shemal ciò era di tutta evidenza; ma allora il serpente si pervertì in martello, quello di Institor e dei roghi di Torquemada e soci: il più efferato crimine genericida della storia. Con Pietro dei colori conosciamo invece l’altra faccia della trasmigrazione: l’odissea dei profughi-lebbrosi, “vescovi” in fuga da Costantinopoli/Bisanzio, di lì a poco definitivamente Istanbul. Profughi-ambasciatori, latori di una chiave di volta di palingenetica possanza: il Corpus Hermeticum. Un testo che, se introdotto nella cultura tardomedievale, avrebbe cambiato il corso della storia. Ma ciò non sarà, ed il maestro Zampedre, figlio della ribelle ostessa-gatto e del geniale pittore Álvaro Pietro di Portogallo, dà il suo contributo epistemico dipingendo e fissando nei secoli l’equazione Maria-Sophia «con Gesù che imparava a sillabare dalle sue ginocchia. La donna e la scrittura. La donna e la sapienza». Maria come Iside, Maria come la Maddalena, Maria come l’ostessa, e Peruzza sua amante e sodale, vindice giustiziera del bandito Noè, contro il quale esegue il fato di morte in modo tanto brutale quanto esoterico. «Devi far paura, se vuoi salvarti!»: ecco l’embrione del riappropriarsi delle donne della loro storia, del loro posto nel mondo. Un motto che trova prosieguo ed alimento in un altro imperativo, sussurratoci dalla porta alchemica della chiesa della Maddalena, in Rennes le Château: Cerca di ottenere ciò che ami, per non essere costrett[a] ad amare ciò che ottieni. Non paia un volo pindarico: quanto sarebbe piaciuta, l’emiliana Normanna Albertini all’arcigna sarda Grazia Deledda! Le due scrittrici condividono il medesimo furente amore per un realismo assolutamente aderente alla vita, la quale non può che rimandare alla vita stessa. Un vitalismo che non ha niente d’idilliaco, ma a cui è sotteso un immancabile compenetrarsi tra i personaggi con il loro caratteri e la natura. Una natura simbolica, mitica, remota, in cui la realtà perde le dimensioni del tempo (il tempo degli uomini – repetita iuvant!), per riacquistare il tempo della Luna. La Luna dalla pelle impura, la cui faccia è immortalata da un misterioso Dàimon rupestre nelle pietre che ogni protagonista del romanzo reca seco.

Recensione di Elisabetta Blasi, Settembre 2008

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